Nannettaicus Mecccanicus santo della cellula fotoelettrica

Brano tratto dal Dvd di Saviozzi Giacomo e Marco Marsili dedicato all'artista Santo della cellula fotoelettrica Nannetti Oreste Fernando N.O.F.4

venerdì 1 gennaio 2010

opere pittoriche di Endza




















"La mia infanzia si cela nei miei dipinti che mi aiutano a vivere il GIORNO D’OGGI. Amo la vita solo quando guardo a questa attraverso le finestre rosse della mia infanzia. Ogni tratto del mio pennello è una preghiera per me."
Questo dice di sé Endza, nato nel 1968 a Etchmiadzin, in Armenia. Durante la sua adolescenza compie diversi studi, tra cui recitazione all' Istituto di Teatro e Cinema di Yerevan (1985-91); e proprio nel teatro di questa città si esibirà per un paio d'anni. Iniziati gli studi teologici, si trasferisce in Israele dove frequenta anche corsi privati di Arte e Pittura fino al '95, quando viene ordinato Sacerdote per restare nel Seminario Teologico Armeno come insegnante d'arte.

Negli anni a seguire, continua la sua formazione artistica, viaggiando anche in Italia; dal 2005, infatti, studia come restauratore di opere antiche all'Istituto Veneto per i Beni Culturali di Venezia.




1995 - Mostra Personale in GERUSALEMME

1997 - Mostra Personale in GIORDANIA (Amman)

1998 - Mostra Personale in ISRAELE (Beit Hanina)

2000 - Mostra Personale in CALIFORNIA, USA (Van Nays e Hollywood)

2001 - Mostra Personale in PALESTINA (Bethlehem)

2002 - Mostra Personale in CANADA

2007 - Mostra Personale in ITALIA (Venezia)

2008 - Mostra Personale in ITALIA (Venezia e Milano)





endza_art@hotmail.com
http://www.endza.com/


E pensò di dover scrivere

di Silvia Porzi

Quella quantità impressionante di informazioni che ormai percepiva da un po’ non potevano perdersi così, sentiva di dover comunicare, un compito importante, ma la sua mente non era più in grado di contenerle tutte.

La cosa migliore era metterle nero su bianco cosicché potesse anzitutto tenerle ferme e poi in un secondo momento elaborarle e trovare il modo esatto di trasmetterle, erano troppe, troppe e bisognava anche capire bene come parlarne.

Nella sua testa un turbine, santo cielo, quasi gli sembrava di svenire, poi pian piano si abituò. In fondo si disse, il sapere all’inizio crea sempre qualche sconvolgimento per la novità che rappresenta ma poi ci si lascia trascinare da quel filo sottile ma resistente come il filo da pesca, ad esempio. Decise di iniziare a buttar giù quello che sapeva, così nella sua forma primaria, come semplice flusso almeno un problema era risolto.

Percorse il giardino che conosceva da molto tempo con piedi nuovi, più agili quasi, nonostante quel giorno la sua testa fosse molto più pesante, ma aveva una nuova spinta.

Quel muro così lungo lo accompagnò per mano, imponente e rassicurante come a ripararlo dalla nebbia che abitava il tardo pomeriggio. Entrò e incontrò la signorina vestita di bianco, graziosa nell’aspetto ma strano appena si avvicinò per chiederle qualcosa su cui iniziare a disciplinare quell’orda di notizie lei gli passò accanto degnandolo appena di uno sguardo. Non avrà sentito di sicuro, si disse. Dopo un paio d’ore, di persone che non avevano sentito o non avevano capito o erano troppo impegnate ne aveva trovate mezza dozzina e lo sconforto non era tanto per la sua presumibile trasparenza ma per le informazioni che sentiva lentamente svanire. Una gran paura di dimenticare, ricordare male; era certo la mattina seguente nella sua testa non avrebbe trovato più nulla, se non i vecchi ricordi, quelli di sempre e forse solo la sensazione di aver dimenticato qualcosa di importante.

Che rabbia gli causava questo e non era servito neanche urlare, sbraitare e dimenarsi, quello che avevano considerato era solo il suo corpo, avevano badato solo a quella massa senza forma in quegli attimi e per nulla a quello che gli usciva dalla bocca.

Per molto tempo non prese sonno un po’ per la concitazione del giorno e anche perché tentava di tenere a mente. La mattina aprì gli occhi e senza neanche doverci pensare era ancora tutto lì, nella sua testa, nelle sue orecchie, nelle mani, in ogni parte di sé che qualche ora prima si era agitata con forza.

Si alzò con calma ormai certo che il frutto delle sue nuove e vecchie conoscenze era custodito nella sua testa che stavolta fedele non lo aveva abbandonato.

Da tempo gli avevano detto che questo stato di calma e serenità gli era dato dalle medicine che prendeva più volte al giorno, forse era vero, oggi sapeva però che la forza di certe convinzioni ha un sapore migliore delle pasticche. Uscì dalla stanza e si mise a pensare a come ottenere quello che gli serviva, incontrò i passi di quel suo amico ma era troppo concentrato e anche se avrebbe voluto parlargliene non poteva ancora.

Andò dritto nella stanza delle infermiere ed entrò senza troppi convenevoli, in fondo non chiedeva molto, e quel pezzo di carta e una matita molto spesso gli erano stati concessi facilmente.

Ora capì quanto fosse stato inutile tutto quello scritto sinora, nessuno si era mai interessato a lui e quelle parole erano state consegnate ad una memoria troppo breve, cancellata dal tempo, dalla muffa, dall’umidità di luoghi nascosti.

Ci vollero giorni prima che qualcuno si degnasse di dargli carta e penna, non perché proprio non volessero ma perché, l’aveva capito, si erano chiesti che cosa mai dovesse scrivere di così importante uno come lui.

Stolti, avrebbero dovuto prendere come oro colato quello che aveva da dire, un colonnello, non se ne rendevano nemmeno conto dopotutto.

Ma ora tra le mani aveva quello di cui aveva bisogno, o almeno così credette pesando la felicità con cui prese quei due fogli bianchi.

Iniziò a scrivere tutto piuttosto facilmente, tanto leggero e spedito che ci mise solo un paio d’ore a coprire ogni millimetro di quei fogli ottenuti faticosamente.

Ora che fare? Era molto stanco all’idea di dover ripassare da quelle stanze e riproporre le sue necessità agli infermieri che non sapevano la gravità della loro mancanza.

I suoi incontri, i dialoghi con quelle persone erano di una natura troppo lontana dalla normalità che la gente potesse sopportare. Nei giorni a seguire fu a metà strada tra il frenetico e il sonnambulo, strano dirlo, proprio lui a metà strada, sempre così intransigente con chi non sapeva decidersi.

Il suo stato incolore era dovuto alla mancanza, in generale nelle situazioni della sua vita era sempre stato “troppo”, troppo ribelle, troppo irrequieto, troppo silenzioso, ma sempre aveva avuto qualcosa in cui essere “troppo”. Era abituato alle strane conseguenze dei suoi troppo, a volte anche abbastanza spiacevoli, ma non sapeva gestire quell’assenza di sé.

Trascorse le sue giornate camminando avanti e indietro nel giardino, guardando il cielo, annusando l’aria molto spesso di un odore acre. Intanto continuava ad incontrare quelle persone che parlavano con lui e lui non sapeva che farne ora di quei dialoghi. Ritornò sui suoi passi più e più volte, camminò, respirò forte e guardò ogni dettaglio di quel luogo con una curiosità nuova che non aveva avuto mai in tutti quegli anni.

Quel posto che all’inizio aveva detestato con una forza viscerale adesso sembrava accoglierlo nella confusione della sua mente. Tutto il resto no, le persone no, ma i cespugli secchi e rossicci poco curati, le panchine di cemento così fredde rovinate dalla pioggia, il viale, le mura di cinta, ogni elemento pareva essergli così familiare; in fondo un senso di appartenenza aveva potuto provarlo solo per quello spazio tutto suo che aveva rivestito con un velo trasparente per proteggerlo dagli altri e dal tempo che passa. Seduto di fronte a quel muro spoglio ma ricco di tanti occhi capì: niente più fogli, contenitori troppo chiusi dei suoi messaggi, come se da lì non prendessero aria, come se dalla carta bianca l’inchiostro non fosse comprensibile. Il muro era lì.

Resisteva da sempre, solo delle screpolature disegnate dalle stagioni gli dicevano che era cambiato e che aveva vissuto, ma in qualche modo l’aveva protetto, lasciato sfogare, accompagnato per tutto quel tempo. Era davvero soddisfatto della soluzione trovata, avrebbe inciso sul muro tutto quello che sapeva, che imparava dai suoi incontri.

Quegli stolti negandogli la carta gli avevano donato qualcosa di ben più importante, maestoso e geniale e su quella parte del suo mondo avrebbe inciso con la fibbia della sua divisa.

C’era davvero tutto, tranne la luce che se ne stava andando, ma ora non aveva nulla di cui preoccuparsi, il mattino seguente avrebbe iniziato il suo lavoro.

Le ore del sonno passarono rapide, aveva dormito e si era svegliato coi migliori propositi, l’aspettava una lunga giornata, una lunga serie di giornate, forse avrebbe fatto quello per sempre.

Uscì fuori e anche il tempo sembrava benevolo, un sole flebile che però sentì penetrare caldo nelle ossa.

Si sfilò la cintura che aveva nella giacca della sua divisa, lo fece come stesse compiendo un rito, era un gesto talmente importante e carico di significato che volle goderne appieno.

Pose la cinghia sul muro, la mano, tremante, si mosse da sola e incominciò quel nuovo pezzo di vita. Tutto quello che accadde dopo lo puoi vedere davanti a te piccola. E’ il frutto dei giorni di un uomo che conosce delle cose, delle persone, il significato di alcune parole e ne fa il suo mondo.

Ancora non sei in grado di capirlo, del resto molti adulti fanno fatica e molti altri non lo comprenderanno mai.

Molti si sono affacciati a questa finestra cercando di vedere un mondo ultraterreno, inseguendo risposte, bramando verità assolute da poter gelosamente custodire per risolvere vite troppo sbiadite. Non perché siano cattivi, ma sono soli, non si conoscono e dunque si impongono di essere sempre qualcos’altro, qualcun altro. E sono incatenati. Non sono liberi, anche se viaggiano, si muovono, comperano tutto quello che credono li rende sempre migliori. E non sanno osservare e fermarsi a concedersi i momenti di libertà vera.

Basterebbe per un momento lasciarsi sopraffare e abbagliare e strattonare dalla potenza di spazi incomprensibili come questo muro. Ci si perde, ecco che cosa accade. Perdersi irrimediabilmente. Camminare e perdersi, guardare e perdersi, stare fermi e perdersi. Ci si interroga e si macchinano plausibili risposte.

In genere credo che il problema sia proprio questo, la mania ossessiva di ritrovarsi, che è ancor più tragica e imbarazzante perché è solo un’impressione prodotta dalla nostra mente. In realtà, forse, nel momento stesso in cui ci sentiamo smarriti siamo liberi, non dobbiamo dimostrare a nessuno che siamo perfettamente in asse con qualcosa, chissà che cosa poi. Sono quegli attimi di un colore scuro e intenso in cui tutto il corpo va per conto suo, un turbine di oggetti che vagano a diverse velocità in noi, e inermi a noi stessi non ci preoccupiamo di fare, dire, pensare, ci abbandoniamo al colore indecifrato.

La paura e la frenesia di sentirsi apposto ci allontana da noi. Siamo capaci di costringerci in situazioni che in realtà sono poco impegnative anche se ci succhiano fino all’ultima goccia, non sappiamo chiederci molto e crediamo che ci basti quello che abbiamo. Ma poi arrivano dei momenti in cui, sentendoci frastornati dalla novità ci lasciamo andare e ci facciamo domande, pericolose, ma abbiamo il coraggio di chiederci se ci basta quello che siamo e se davvero è sufficiente quello che sappiamo degli altri.

La risposta è incisa su questo muro, che il tempo ci sta rubando davanti agli occhi ogni giorno di più. E stiamo lasciando che l’incuria porti via questa grande opera perché non sappiamo vederne il significato reale.

Ci si interroga troppo su quello che c’è disegnato, il delirio dilagante di un uomo folle che dice di parlare con persone dell’aldilà? Gli effetti dei sedativi di molte medicine su un uomo che era solo diverso dal suo vicino? Segni astrali contenenti verità fondamentali per l’umanità perché rivelategli da esseri alieni o di una vita successiva alla nostra? Questo è quello che la maggior parte delle persone vede e racconta ed è forse tutto vero.

Quello che dovremmo ammirare però è ben altro, è la forza fisica di un uomo che incide per dodici anni quello che vive, tanto da non curarsi di chi gli intralcia il cammino, da trovare soluzioni in un luogo che probabilmente di soluzioni ne offre poche, da costruirsi uno spiraglio di libertà in questo luogo desolato e freddo e triste. Io non ho visto molti bei posti, chi è come me ascolta racconti e vede qualche foto e pensa di esserci stato. La realtà è che cerco ogni giorno di salvare dalle mani rapide del tempo che scorre questo posto che per me è un castello. Tu invece no, vedrai tanti luoghi, ti auguro, visiterai cattedrali, ti farai rapire da molti quadri, danzerai con la musica che sembra muoverti come i burattini di Pinocchio che tanto ti piacciono, e poi un giorno, quando ti sentirai un’estranea ripenserai a questo strano parco giochi e sentirai una leggera scossa. Ti tornerà in mente qualcosa che avevi dimenticato sotto tutte quelle cose meravigliose viste in giro.

Quando sarai una donna saprai apprezzare questa lunga e infinita opera d’arte che supera i confini di un quadro, creata da un uomo “pazzo” che lascia andare la sua mano guidata da uno spirito divino. Il santo della cellula fotoelettrica.

Silvia Porzi

Roma dicembre 2009

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